L'Istituto per la Regolazione degli Orologi, come tutti i grandi romanzi, è un libro che contiene un mondo. E lo si può percorrere in direzioni diverse trovando sempre qualcosa di nuovo. Intanto è il piú bel libro su Istanbul, raccontata dal primo Novecento durante l'Impero Ottomano, con il fascino dei grandi e antichi palazzi abitati da personaggi quantomeno stravaganti, fino alla modernizzazione degli anni Quaranta e Cinquanta. Poi è una satira degli «enti inutili», della burocrazia metafisica, della cialtroneria indissolubilmente intrecciata alla grande saggezza. Ed è la storia di un bellissimo personaggio, Hayri Irdal, alle prese con il tempo fin da quando ragazzino era l'aiutante di bottega di un orologiaio, o anche prima visto che la sua esistenza è segnata fin dall'inizio, e per sempre, da una vecchia pendola di casa. Un capolavoro della letteratura del Novecento per la prima volta tradotto in italiano.
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Quel che conta, in questo capolavoro comico-satirico, è la forma con cui Tanpýnar prova a maneggiare il Tempo, l'attrezzo con cui entra dentro la gabbia delle tigri: un orologio. Il che è un paradosso, o un'apparente contraddizione: Tanpýnar tenta di lasciare che il Tempo soffi libero il suo sinistro vento abissale, e però per farlo non trova nient'altro di meglio che raccontare come per tutta la vita abbia tentato viceversa proprio di chiuderlo in sacchetti, creando persino un'Istituzione apposita. L'Istituto per la Regolazione degli Orologi mette in scena proprio questo fallimento, nella dialettica, tipicamente novecentesca tra il caos del mondo e un tentativo da parte del romanzo di trovargli un qualche ordine. Il mondo infuria, la vita si dipana in troppe linee perché se ne possa scegliere - comunque arbitrariamente - una da raccontare e dare per buona. Per questo il romanzo usa le parole, perché alla stregua di quei sacchetti di tempo che sono gli orologi, danno l'illusione che l'abisso si possa dire, il Tempo calcolare, lo Spazio si possa misurare.
Dalla prefazione di Andrea Bajani